16 Maggio 2004

XIV Rapporto Caritas-Migrantes

Presentazione del “Dossier Statistico Immigrazione 2004” Caritas-Migrantes
Franco Pittau, comitato Scientifico del “Dossier”

Il “Dossier 2004” è dovuto a 85 persone che vanno ringraziate per la loro dedizione, la loro intelligenza e anche la loro eccezionale celerità. Una grande riconoscenza è dovuta anche a tutte le strutture che ci hanno aiutato con la fornitura dei dati, a partire dal Ministero dell’Interno al quale anch’io rinnovo il più sentito ringraziamento per la preziosa collaborazione da sempre prestata.

La Caritas di Roma celebra quest’anno il suo 25° anniversario ed io festeggio 35 anni di impegno nel settore delle migrazioni. Ritornato dalla Germania nel 1976, dopo aver lavorato prima nelle Acli e poi nel sindacato, ho avuto la grande fortuna di collaborare con la Migrantes, con la Caritas di Roma e ora anche con la Caritas Italiana, imparando ad inquadrare l’immigrazione come “segno dei tempi”: mi pare doveroso ringraziare per l’opportunità che mi è stata offerta.

Tratterò solo alcuni punti del Rapporto, da approfondire con la lettura della “Scheda” e dello stesso “Dossier”. Preciso che i dati da noi forniti non hanno il compito di correggere questo o quel Ministero, ma solo di leggere gli archivi nella loro globalità, integrandoli all’occorrenza con una nostra stima.

La pressione migratoria non è destinata a diminuire

Basandoci sui visti d’ingresso rilasciati dal Ministro degli Affari Esteri, nel 2003 i nuovi ingressi in Italia a carattere stabile sono stati 107.500, così ripartiti: 19.500 visti per inserimento lavorativo come autonomi o dipendenti, 66.000 per ricongiungimento familiare, 18.000 per motivi di studio e 4.000 per motivi religiosi. Non va tenuto conto, non essendo a carattere stabile, dei 68.000 visti per lavoro stagionale. Per lavoro sono venuti in prevalenza dall’Est Europa, mentre per ricongiungimento familiare sono arrivati da tutti i continenti.
I nuovi ingressi hanno determinato un aumento della popolazione straniera del 7%; se si tiene conto anche dei circa 650.000 regolarizzati, l’aumento complessivo è del 45%.

Quanti sono venuti irregolarmente e si sono fermati da irregolari in Italia nel corso del 2003? Sarebbero attualmente 200.000 secondo l’Ismu, 600.000 secondo i sindacati e 800.000 secondo l’Eurispes. Noi del “Dossier” non sappiamo quanti effettivamente siano. Le persone coinvolte nei respingimenti e nelle espulsioni sono state nel 2003 poco più di 100.000, ma rispetto agli intercettati è difficile ipotizzare il numero di quelli che sono riusciti ad entrare. Le ispezioni degli istituti previdenziali e del Ministero del lavoro, come anche l’Istat, attestano che è molto diffusa l’economia sommersa: si può ipotizzare, come già detto nel passato, che le ispezioni impostate secondo un criterio di campionatura aiuterebbero nella stima del numero degli irregolari.

È certo, invece, che il 60% della ricchezza mondiale è detenuto dall’America e dall’Europa, che sono solo un quarto dei 6 miliardi e 300 milioni abitanti del pianeta. Il direttore generale dell’Ilo (Ufficio Internazionale del Lavoro), Juan Somavia, ha osservato che “se si guarda all’economia globale dal punto di vista della gente, il suo più grande fallimento consiste nell’incapacità di creare lavoro sufficiente nei luoghi in cui le persone vivono”.

Per lo sviluppo dei paesi poveri le parole sono state tante e le realizzazioni scarse.
Tra i 36.239 dollari dell’America Settentrionale e i 983 dell’Africa Orientale corre un abisso: la differenza è di 37 a 1. Tra le persone poverissime, ben mezzo miliardo vive in Africa e cioè i due terzi della popolazione di quel continente. Di essi vediamo sbarcare in Italia qualche sparuto gruppo rispetto ai milioni dei futuri candidati ad emigrare.

Peraltro, una delle maggiori risorse di questi Paesi è costituita dagli stessi risparmi degli immigrati: 93 miliardi di dollari nel 2003. L’Italia, come viene spiegato nel “Dossier”, è al nono posto nel mondo con 2,6 miliardi di dollari, di cui meno della metà transitato attraverso le banche. Senza migrazioni, questi paesi perderebbero una risorsa e sarebbero ancora più poveri.

Stando così le cose, la regolamentazione dei flussi non si può ridurre ad una semplice “partita di giro”, scaricando i problemi dei paesi ricchi su altri paesi incaricati dei controlli: le convenzioni possono aiutare solo fino ad un certo punto, mentre alla radice resta la mancanza di sviluppo sul posto, che continuerà ad essere un fattore di esodo. Diceva le stesse cose 10 anni fa l’ambasciatore Nino Falchi in un bel libro sulla sfida delle migrazioni curato per l’Oim.

2.600.000 immigrati regolari in Italia, 1 ogni 22 residenti

Nel corso degli anni ’90 l’immigrazione è aumentata secondo un ritmo vivace, specialmente a seguito di tre regolarizzazioni: l’Istat ha calcolato che tra il censimento del 1991 e quello del 2001 la presenza è triplicata, arrivando a superare il milione di presenze. Successivamente l’andamento è diventato ancora più sostenuto e, tra il 2000 e l’inizio del 2004, si è verificato il raddoppio con 2 milioni e 600mila presenze regolari. Nella stima del “Dossier”, basata peraltro su criteri prudenziali, alle persone registrate dal Ministero dell’Interno (circa 2,2 milioni) vanno aggiunti 400.000 minori, che aumentano al ritmo di circa 65.000 l’anno (35.000 come nuovi nati e 25.000 come nuovi ingressi).

Di fronte a questa consistente presenza possiamo dire che il futuro della politica migratoria italiana consiste nel coltivare una dimensione euro-mediterranea: la presenza europea raggiunge quasi la metà del totale (47,9% di cui solo il 7% costituito da cittadini comunitari), mentre all’Africa spetta quasi un quarto (23,5%): è consistente anche la rappresentanza asiatica (16,8%) mentre è più ridotta quella americana (11,5%).

Hanno rafforzato la loro presenza i primi tre gruppi nazionali (Romania, Marocco, Albania), ciascuno con circa 230/240mila soggiornanti registrati. Al quarto balza sorprendentemente l’Ucraina (113.000) e quinta è la Cina (100.000). Nella fascia tra le 70 e le 60.000 presenze troviamo Filippine, Polonia e Tunisia, mentre nutrito è il gruppo di paesi con 40.000 presenze (Stati Uniti, Senegal, India, Perù, Ecuador, Serbia, Egitto, Sri Lanka). Il numero dei soggiornanti registrati andrebbe maggiorato così come abbiamo fatto per la presenza complessiva, ma non sono disponibili i parametri per ciascuna nazione: ad esempio Romania, Marocco e Albania arriverebbero già a 270-280 mila presenze regolari.

È stata quasi raggiunta la parità tra i sessi, e questo per il forte bisogno di donne immigrate nel sistema dell’assistenza alle famiglie (si tratta di mezzo milione di persone): se nel 1991 i maschi erano il 58%, oggi sono scesi al 51,6%. I coniugati sono la metà del totale e anche questo è un indice di equilibrio familiare. Sappiamo poi da sempre che gli immigrati sono molto più giovani di noi: il 60% è concentrato tra i 19 e i 40 anni.

Per la ripartizione territoriale potremmo parlare, in gergo calcistico, di 6-3-1: grosso modo 60% nel Nord (1 milione e 500mila immigrati,), il 30% nel Centro (710mila,) e il 10% (357mila) nel Meridione. #9; Alla Lombardia spettano 606.000 soggiornanti, al Lazio 369.000. L’incidenza è del 4,5% sulla popolazione complessiva (un immigrato ogni 22 abitanti), con queste differenze: 6,5% nel Centro, 6% nel Nord, 2% nel Sud e 1,5% nelle Isole. Si è attorno al 7% nel Lazio, in Lombardia e in Emilia Romagna. Vi sono province nelle quali l’incidenza è dell’8% (Reggio Emilia, Pordenone, Treviso), del 9% (Roma e Brescia) e dell’11% (Prato). E’ andata attenuandosi la concentrazione nei grandi comuni e la presenza degli immigrati tende a spalmarsi in maniera più equilibrata e più visibile su tutto il territorio italiano.

Secondo un’indagine condotta dall’Anci (2004) tra i comuni con più di 15.000 abitanti il 60% non dispone di un ufficio immigrazione, mentre tra le grandi città ad esserne sprovvisto è solo un quinto. In altre parole, vi è una realtà di fatto che stenta ad essere assunta formalmente, mentre per quanto riguarda i Consigli territoriali per l’immigrazione, alla formalizzazione sancita dalla legge non sempre ha fatto seguito l’efficacia operativa auspicata.

Un sistema produttivo sostenuto dagli immigrati

Da anni l’Italia sta attraversando una fase economica non facile: riduzione della percentuale di crescita e della quota nel commercio mondiale, carenze nella ricerca e negli investimenti tecnologici, scomparsa o quasi della grande industria, crisi di settori tradizionali del “made in Italy”, scarsa presenza in settori importanti dei nuovi mercati, andamento demografico negativo. In queste condizioni abbiamo bisogno di un forte apporto dei lavoratori stranieri, come sostengono gli imprenditori, ma ciò nonostante non riusciamo ad accettarli pienamente.

Oltre ai titolari di permessi per lavoro (1.450.000), svolgono un’attività anche circa 300.000 familiari, così da incidere per circa il 7% sulle forze lavoro (24.150.000) e fornire un importante contributo all’economia del paese, anche a rischio della loro salute. I casi di infortunio denunciati nel 2003 sono stati 106.930, di cui 129 mortali. 1 ogni 9 infortuni riguarda un lavoratore extracomunitario: per essi si verifica un infortunio ogni 15 occupati, mentre per gli italiani il rapporto è di 1 infortunio ogni 25 occupati (Ricerca Dossier-Istituto Italiano di Medicina Sociale 2004). È effettiva l’esigenza di una tutela più ampia e questo aiuta a capire l’alto numero di iscritti a Cgil-Cisl-Uil nel 2003 (333.883 immigrati con un aumento del 49% rispetto al 2000).

Le statistiche sulle assunzioni riflettono il grande apporto degli immigrati, anche se sopravvalutate perché l’archivio INAIL è basato sulla semplice nascita in un paese estero. Secondo tale archivio spetta ad un immigrato una ogni 6 assunzioni (nel 2000 si trattava di una ogni 10) con 771.813 casi di assunzioni a tempo indeterminato e 214.888 a tempo determinato, avvenute specialmente nelle piccole imprese. La percentuale delle donne, le grandi protagoniste dell’immigrazione, è pari a quella degli uomini (49,6%) ma non nei lavori a tempo determinato dove sono di meno.

Il 70% delle assunzioni è concentrato nel Nord (al Centro il 20% e al Meridione solo il 10%). Il “triangolo dell’immigrazione” è costituito dalla Lombardia, dal Veneto e dall’Emilia Romagna, con metà o più delle assunzioni di immigrati per la maggior parte dei settori.
Dal rapporto positivo tra assunzioni e cessazioni sono derivati 684.569 saldi, di cui la metà si riferisce a persone regolarizzate. Il concetto si avvicina a quello di nuovo posto di lavoro, senza però esserne l’equivalente: si tratta comunque di un indice positivo, specialmente se confrontato con quello degli italiani.
I rami produttivi da segnalare per il maggior numero di assunzioni sono 12: lavoro domestico, costruzioni, alberghi e ristoranti, agricoltura, attività immobiliari/pulizia, industria metalli, trasporti, commercio al dettaglio, commercio all’ingrosso, industria alimentare, industria tessile e servizi pubblici.

Il mercato del lavoro privilegia gli immigrati provenienti da aree continentali vicine per cultura, tradizioni, formazione professionale e religione, e cioè l’Europa Centro Orientale (45% del totale) e l’America Latina (14%, appena un punto percentuale in meno rispetto ai nordafricani che sono più numerosi quanto a numero di presenze). Il numero maggiore di assunzioni a tempo indeterminato riguarda la Romania (14,4%), seguita dall’Albania (9,4%), dall’Ucraina (8,9%) dal Marocco (8,6%) e dalla Polonia ( 4,5%).

Dall’annuale ricerca che la Cna conduce con il “Dossier” è risultato che i titolari d’impresa, effettivamente stranieri, sono 71.843 al 31 giugno 2004 (mentre è quasi doppio il dato grezzo riferito a quelli nati all’estero). Il dato è notevole perché caratterizzato dall’aumento di circa il 25% rispetto all’anno precedente, mentre tra gli italiani la situazione è risultata quasi statica: in media una ogni 50 imprese appartiene ad un imprenditore straniero, 1 ogni 25 a Roma e 1 ogni 8 a Prato.

Gli immigrati, che sono artigiani in quarto dei casi, sono particolarmente attivi nel ramo del commercio e delle riparazioni (42%) e in quello edilizio (28%). Gli immigrati sono anche una vasta categoria di contributori. Dal capitolo curato dall’INPS, che anticipa i primi risultati di una vasta ricerca ancora in corso, risulta che nel 2002 i lavoratori extracomunitari per i quali è stato pagato almeno un contributo sono stati 1.225.000. La ripartizione per settori vede prevalere i servizi (50,4%); seguono industria (41,6%) e agricoltura (8%).

I chiaroscuri del processo di integrazione

Il Cnel, con il sostegno dell’équipe del “Dossier”, si è confrontato con il difficile compito di misurare il grado di inserimento degli immigrati a livello regionale. E’ stato elaborato una sorta di termometro dell’integrazione, che ha utilizzato una serie di indicatori sulla consistenza della presenza, sull’inserimento sociale e su quello lavorativo. Si è ottenuta una classifica indicativa, che colloca ai primi posti la Lombardia e il Veneto e nella zona intermedia il Lazio e il Trentino Alto Adige.

Il “Dossier” è d’aiuto per riflettere sugli aspetti statistici rilevanti ai fini dell’integrazione. La tendenza all’inserimento stabile è attestato dal fatto che i due terzi (66,1%) degli immigrati sono venuti per lavoro e circa un quarto (24,3%) per motivi di famiglia: possiamo dare per scontato l’aumento delle pratiche per ricongiungimento familiare, proprio in una fase in cui la macchina burocratica è molto appesantita e sta generando gravi ritardi.

Un altro 7% di permessi è rilasciato per inserimento medio-stabile (studio, residenza elettiva, motivi religiosi). I permessi di studio incidono solo per il 2% sul totale dei permessi (solo Trieste e Firenze si attestano sul 10%), a differenza di quanto avviene in tanti altri paesi europei.
Gli studenti stranieri nell’anno scolastico 2003-2004 sono stati 282.683, con un aumento di 50.000 rispetto all’anno precedente. Con questo ritmo basteranno quattro anni per arrivare alla quota di mezzo milione di studenti stranieri e questo spiega perché il settore è prioritario.
Prima della regolarizzazione gli immigrati con almeno cinque anni di soggiorno erano il 60% mentre un terzo soggiornava da almeno 10 anni. Rispetto agli immigrati dell’Est Europa vi sono diversi paesi africani e asiatici che hanno una percentuale più elevata di soggiornanti di lunga durata (Capoverde 87%, Corno d’Africa, Filippine, Argentina e Cile 75%). Purtroppo, non sono disponibili le statistiche sui titolari della carta di soggiorno, il documento che assicura la permanenza a tempo indeterminato: virtualmente dovrebbero essere circa 700.000 casi.

Al censimento del 2001 la percentuale degli stranieri nati in Italia era del 12%: è questo un altro dato che induce alla riflessione. Si può ipotizzare che oggi siano circa 250.000 le persone che, seppur straniere, sentano l’Italia come la loro paese natio, la loro terra. Esse provengono nel 50% dei casi da Marocco, Albania, Tunisia, Cina, Filippine, Jugoslavia, Egitto e Romania.

Questo desiderio di essere i “nuovi cittadini” viene spesso contrastato da discriminazioni di vario genere. Ad esempio, sono di grave ostacolo le difficoltà nell’accesso all’alloggio (indagine Appc-Associazione Piccoli Proprietari di Case, 2003): il 57% degli affittuari di 5 città del Nord Italia e di 7 del Centro sono contrari ad affittare a immigrati. Il record negativo spetta a Bologna (95%), a cui seguono Perugia (70%), Firenze (62%) e Milano (70%). Più aperte sono invece Roma (51%), Genova (52%) e Bari (54%).

Nonostante certe intemperanze, più equanimità si riscontra nell’accettare i simboli di altre religioni: il 70% si è dichiarato contrario ad una legge restrittiva come quella approvata in Francia. Il notevole aumento degli immigrati dell’Est Europa, in prevalenza ortodossi, ha modificato notevolmente lo scenario. I cristiani sfiorano la metà del totale (49,5%), seguiti dai musulmani con un terzo delle presenze (33%). I fedeli di religioni orientali sono all’incirca il 5%, mentre gli altri gruppi hanno una rappresentanza molto ridotta (gli ebrei, ad esempio, sono lo 0,3%).

Secondo l’indagine dell’Anci (2004) gli interventi prioritari riguardano l’accesso all’abitazione (43%), il lavoro (22%) e la scuola (12%).

Qualche conclusione

I dati riportati si possono sintetizzare così: una pressione migratoria che continuerà, una presenza consistente e diffusa su tutto il territorio, un inserimento diversificato nelle regioni, un notevole apporto a livello lavorativo e una integrazione a metà del guado. Le previsioni sull’immigrazione, che prima ci lasciavano abbastanza distaccati, iniziano a prendere forma corposa e richiedono da tutti maggiore attenzione.

Riprendendo quanto esposto dalla Presidenza nell’introduzione al “Dossier”, il mercato del lavoro induce a interrogarsi sulla programmazione triennale, ancora da approvare, sui meccanismi di ingresso nel mercato, sulla determinazione delle quote, sull’incontro tra domanda e offerta.
È tempo di prestare più attenzione al “peso amministrativo” delle decisioni normative, cercando di semplificare al massimo la vita degli immigrati, riconsiderando la durata dei permessi di soggiorno e potenziando l’efficacia della macchina burocratica, problema peraltro già in discussione.

Senza diritti non vi possono essere immigrati integrati. I diritti sociali non devono rischiare di restare sulla carta: il recente rapporto Caritas sulla povertà ha sottolineato, ad esempio, che solo la metà degli immigrati ha un medico di famiglia.
Tra gli altri diritti bisogna insistere sull’accesso agevolato alla cittadinanza e sulla concessione del voto amministrativo.

È realistico pensare che, per il bene della società, il compito del futuro consista nel facilitare la convivenza, con noi italiani, di tradizioni, lingue, culture e religioni differenti: per questo si può dire “Società aperta, società dinamica e sicura”.

Roma, 27 ottobre 2004

Aggiornato il 22 Settembre 2022